Ci sono alcuni momenti nella vita in cui il pensiero del futuro diventa dominante rispetto agli altri tempi: non si rimpiange il passato, non ci si lamenta del presente, ma finalmente si è più portati a chiedersi cosa potrà farci felici più in là, più focalizzati su un orizzonte lontano e più motivati a mettere in pratica tutto ciò che occorre per sovrapporre la propria identità e quella dei propri cari a quell’immagine. Lo stesso, pare, si può dire per intere generazioni.
Secondo alcuni studiosi, la generazione di primissimi Millennials, oggi all’incirca trentacinquenni, è “incastrata” tra il sapere con una certa precisione cosa vuole ottenere dalla professione (e dalla vita) e la bruciante consapevolezza di non poterlo mai o quasi mai ottenere. Una generazione di disillusi, abituata da genitori affettuosi e protettivi ad avere tutto, a pretendere molto (“giustamente!”, ci viene detto, “con tutti i sacrifici fatti!”) e allo stesso tempo incapace di toccare con mano il traguardo tanto agognato, travolta dai privilegi dei più forti – i Vecchi – e dalla miopia dei più responsabili– i Governanti.
Approfondendo gli studi sulle nuove generazioni, due aspetti colpiscono. Il primo è che è imprescindibile per le nuove generazioni vivere in armonia con il proprio contesto. Non sorprende, data la situazione in cui ci troviamo. La coesione sociale per i giovani diventa una condizione necessaria per lo sviluppo dell’individuo, delle famiglie e delle comunità e non un obiettivo in se stessa, come vorrebbe un po’ di sana demagogia o qualche programma politico. Il secondo aspetto è che le nuove generazioni sanno che i tempi per lo sviluppo della conoscenza e dell’innovazione sono lunghi, pertanto richiedono una buona dose di investimenti e di pazienza. Lo hanno imparato sulla propria pelle e i più fortunati lo hanno anche studiato sui banchi universitari, a differenza di molti dei loro padri.
Cosa c’entra la filantropia con tutto questo? C’entra moltissimo, almeno per due ragioni. La prima è che la filantropia per sua natura è orientata al benessere sociale, agendo da sempre sulle fasce più deboli della società. Ad aggiungersi ai tradizionali “poveri”, abbiamo oggi più che mai una vasta gamma di esclusi, tutte categorie la cui debolezza le nuove generazioni hanno imparato a toccare con mano: i giovani sono essi stessi deboli. Nonostante recenti dati mostrino che globalmente nel 2017 la ricchezza mondiale sia cresciuta a un tasso considerevole (6.4%) raggiungendo i 280 trilioni nel 2017 e il numero di milionari al mondo sia letteralmente esploso, proprio le nuove generazioni affrontano il cosiddetto “Millennials disadvantage”: prezzi più elevati, mutui meno convenienti, maggiore ineguaglianza di reddito e minore mobilità sul lavoro. Inoltre, sono generazioni abituate a convivere con una diseguaglianza accecante a livello globale, considerato che circa il 50% della ricchezza ai giorni nostri è nelle mani di 8 persone.
La seconda ragione è che proprio le nuove generazioni sono chiamate in causa già da un po’ (in alcuni paesi) o lo saranno presto (nel nostro) come donatori. Secondo l’Economist (Novembre 2017), parallelamente alla crescita degli investimenti socialmente responsabili (Goldman Sachs gestisce oggi 10.5 miliardi di dollari in asset dedicati agli ESG, ovvero investimenti rispettosi di criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance), sono proprio giovani e giovanissimi super-ricchi a ricalcare i loro antenati nel fondare iniziative filantropiche ma in un modo tutto nuovo, mettendo i benefici sociali al centro delle donazioni. E non bisogna pensare che tutto questo sia vero solo per il contesto americano: le stime globali riportate riferiscono che entro il 2020 le nuove generazioni erediteranno circa 24 trilioni di dollari globalmente, protagonisti del più importante passaggio di ricchezza della storia.
Sono loro i nuovi filantropi.
E cosa potranno fare per questo futuro? Innanzitutto, potranno sperimentare la coesione (e la giustizia?) sociale. Se è vero che la coesione sociale non è un obiettivo, ma una condizione necessaria per lo sviluppo dell’individuo verso una società più equa e, semplicemente, una vita più felice, allora la filantropia delle nuove generazioni può sperimentare modelli coesivi, basati su reti e non su gerarchie. Quale generazione più adatta a far questo esiste della “generazione Erasmus”, abituata alla mobilità senza confini, al confronto e alla precarietà continua, al cambiamento voluto o forzato, alle potenzialità delle nuove tecnologie?
Poi, potranno promuovere una governance in grado di lasciare fluire i tempi lunghi necessari per la maturazione della conoscenza che porta all’innovazione – anche sociale. Questo certamente richiede un po’ di saggezza, di cultura e di solide competenze, oltre al “vil denaro”, necessarie per garantire una visione che non si arrenda alla necessità di spendere tutto e subito, per le ragioni più disparate – reputazione, posizionamento nella società, immagine di se stessi, vantaggi fiscali o altro (si veda qui per la differenza tra fondazioni con approccio spend-down e in-perpetuity).
Credere che i donatori – siano essi individuali o istituzionali – non siano essi stessi nodi di potere nella società moderna è un’illusione. Ma che le nuove generazioni siano in grado di promuovere un diverso tipo di potere, più inclusivo che esclusivo, forse questo sì, è maggiormente nella loro natura. Il vero vantaggio competitivo di questi giovani filantropi sarà proprio questo: avere tutte le carte in mano per incanalare quelle pretese di successo e realizzazione personale ben al di là dell’interesse individuale, nella ricerca (competente e non improvvisata) della bellezza della società in cui vivono e in cui vivranno ancora a lungo.
Geneticamente, come Millennials, partiamo avvantaggiati.
E allora avanti Donatori Next Gen: il mondo è vostro.